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Amiamo navigare in barca a vela e viaggiare a piedi per il mondo.
Questa è la sintesi di cosa può accadere quando una velista amante del mare e delle regate, che ha navigato in lungo e in largo per tutto il mediterraneo, si innamora di un camminatore “incallito”

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Attività di ricerca e soccorso nel Mar Mediterraneo

Attività di ricerca e soccorso nel Mar Mediterraneo

A meno di un metro.

Ai miei compagni d’avventura Denny, Iasonas, Celo, Tommy, Nico, Ale, Lia, Piero. A quelli che ci hanno seguiti da casa. A Mimmo, Sheila, Luca e Beppe, a Mediterranea,
ma più di tutti ad Agata.

Buio.

Mare e cielo sono di piombo, solo le stelle alleviano un po’ la sensazione di essere in un buco nero senza spazio né tempo.

La randa è aperta, ma c’è poco vento ed allora si va a motore. Siamo a poche centinaia di metri dal “target” che ci è stato segnalato…almeno così dicono gli asettici strumenti di bordo.

Abbasso i giri del motore e riduco la velocità, potrebbero essere ovunque, anche davanti a noi e sbucare improvvisamente prima di riuscire a squarciare il buio. La barca si muove ormai soltanto con l’abbrivio e scivola lenta sul mare. Si abbassano le luci interne e due membri dell’equipaggio corrono a prua con torce piccole, ma potenti. Nessuno l’ha chiesto, ma a bordo cala uno strano silenzio carico di tensione. Adesso dobbiamo solo vedere ed ascoltare.

Un cono di luce comincia a scandagliare l’orizzonte, ma la luminosità, prima brillante e netta, si affievolisce velocemente fino a perdersi nel nulla lasciandomi una strana sensazione claustrofobica. Allora il mio sguardo, senza volerlo, si sgancia dalla prua e comincia a vagare nel buio.  Mi accorgo di stare trattenendo il fiato forse perché temo che persino il suono del mio respiro possa coprire le possibili grida d’aiuto in lontananza o forse semplicemente perché mi sento come immerso in un elemento che non è il mio, che richiede tutta la mia attenzione e concentrazione ma dal quale spero di uscire al più presto. E’ un tempo sospeso.

Ad un certo punto accade!

Qualcuno vede agitare nell’oscurità una flebile luce azzurrognola. Ci siamo. Li abbiamo trovati!

Cerco di stimare a quale distanza si trova il barlume che oscilla nel buio, forse siamo a meno di 1000 metri da loro ma è davvero difficile calcolare le distanze senza nessun elemento di riferimento. La “torcia” di un cellulare, proprio come quella che attiviamo quando ci cadono le chiavi sul selciato prima di entrare a casa, era la mia unica guida verso di loro.

Accelero un po’ dirigendomi verso quel sommesso grido luminoso, avendo cura però di lasciare uno spazio a dritta della prua, una distanza che mi permettesse di avvicinarmi riducendo lo iato tra noi e loro a poche centinaia di metri. La scelta di non puntare direttamente sulla luce, ma di pormi parallelo ad essa era dettata più che dal timore di travolgerli (in fondo avvicinandomi avrei avuto una panoramica sempre più chiara e distinta della loro posizione), quanto per evitare che la vicinanza eccessiva della nostra imbarcazione potesse indurli a tuffarsi in mare per raggiungerci e trarsi in salvo. Una reazione del genere, paradossalmente, potrebbe essere fatale sia per chi (non avendo mai messo piede in acqua prima di allora) sopravvaluta le proprie capacità natatorie, sia perché il movimento repentino di tutte le persone presenti a bordo verso un fianco dell’imbarcazione avrebbe potuto causare un ribaltamento, scaraventando esseri umani e speranze in fondo al mare.

La mia concentrazione nell’impostare la rotta viene in parte smorzata dalla frenesia che si diffonde velocemente a bordo tra i membri dell’equipaggio. Vedo 2 o 3 di loro che si catapultano a pruavia dell’albero a sciogliere le cime di ritenuta dei due grandi sacchi di giubbotti di salvataggio, mentre altri 4 si preparano a saltare sul gommone “ABBA1” che da più di tre giorni ci portiamo al traino, non senza difficoltà.

Alarm Phone, un’associazione che diffonde alle autorità marittime ed alle imbarcazioni della così detta “Flotta Civile” presenti in zona, le richieste di soccorso inviate direttamente dai natanti in pericolo (o inoltrate dai parenti che sono in contatto sulla terra ferma), ci aveva inviato una segnalazione che recitava così:

“AP 1759-2024, SOS dal Mediterraneo Centrale.

La nostra hotline è stata allarmata da una chiamata di soccorso proveniente da una imbarcazione in mare.

Ecco le informazioni che abbiamo ricevuto finora:

Numero di persone: 17 (di cui 11 uomini, 2 donne e 4 bambini)…

Posizione GPS con timestamp: N 34 49 008, E 012 25 107 @ 01.05 CET 29 nov.

Tipo di barca: in legno bianca (rossa davanti)

Le persone sulla barca chiedono urgentemente aiuto.…”

Nei successivi 2 dispacci di Alarm Phone, giunti prima del nostro avvistamento, veniva specificato che il natante in questione stava imbarcando acqua e che il motore aveva smesso di funzionare. Lontano dalla costa, alla deriva, imbarcando acqua e con una perturbazione meteo che in meno di 12 ore avrebbe probabilmente messo in difficoltà persino noi (prova ne sia il fatto che prima di ricevere la segnalazione avevo già avvisato Denny, il Capo Missione, che a meno di eventi straordinari, avrei programmato il rientro a Lampedusa della nostra Safira2 prima di sera). Diciassette persone, dunque, si trovavano in grave pericolo di morte.

Poi tutto cambia.

La radio vhf gracchia un po’prima di emettere la voce di Iasonas, il responsabile del soccorso presente sul gommone che nel buio si è staccato da Safira per dirigersi verso quella lucina. Lui è il più esperto a bordo, in tanti anni di attività S.A.R. ha collaborato al salvataggio di più di 10.000 persone. Ne ha viste di tutti i colori insomma. Prova ne sia il fatto che appena qualche giorno prima, davanti una birra, gli avevo chiesto quale fossero le proprie emozioni all’idea di partecipare ad un’ennesima operazione di monitoraggio e soccorso in mare e lui, senza dissimulare modestia, mi disse che tutta la fase preparatoria (fondamentale per noi neofiti) rappresentava la solita storia…”bullshit”…le solite stronzate, apparentando sicurezza e un certo senso di sufficienza. Ma al tempo stesso, se ci fosse stato da intervenire sarebbe ritornato a concentrarsi dando il meglio di sé e cercando sempre di non perdere la calma.  Motivo per cui, dopo quel gracchiare elettrico del vhf, l’aver percepito la sua voce un’ottava più alta del solito ed al doppio della velocità, agitata insomma, mi ha messo in ulteriore allarme.

“ – Imbarcazione Safira da Abba1.

  • Vieni avanti Abba1…”

ma Denny non fa in tempo a rispondere che Iasonas lo travolge raccontandogli concitatamente quel che vede. Non si tratta di 17 persone ma almeno 70, che galleggiano a malapena su un gommone con i tubolari già parzialmente sgonfi, senza propulsione ed imbarcando acqua, e poi, quasi urlando dice: “GAS! GAS!”. Le persone a bordo erano letteralmente inzuppate di benzina che ha allagato il pagliolato del gommone. Fino a quel momento ero a conoscenza che il mix di acqua di mare ed idrocarburi fosse pericoloso perché causa di ulcere ed ustioni. Solo successivamente mi sono reso conto che la benzina galleggiando sull’acqua di mare emette dei vapori che in contatto con l’ossigeno ed in presenza di un semplice innesco, creano un cocktail esplosivo.

Sento il cuore pompare all’impazzata, cerco nel buio gli occhi di Agata (mia moglie e co-skipper) e mi accorgo che lei ha già lo sguardo fisso su di me…e ci capiamo al volo. Prima di partire per la missione avevamo interrogato il manuale del costruttore della nostra Safira2 per avere una qualche risposta su quale fosse il carico massimo applicabile all’imbarcazione senza pregiudicarne la navigabilità. Con nostra sorpresa avevamo trovato un numero: 4830. Erano i chilogrammi che potevamo aggiungere alla stazza della barca includendo però in questo margine il peso delle 10 persone di equipaggio, i serbatoi di acqua e gasolio pieni, più il peso di qualunque altra strumentazione aggiuntiva come la zattera di salvataggio. Avevamo fatto un calcolo sminuendo un po’ i carichi che avevamo aggiunto a bordo (ad esempio una enorme zattera di salvataggio gonfiabile che necessitava di 2 uomini per essere spostata), ed eravamo arrivati ad un altro numero: 35. Era il numero massimo di persone che avevamo stabilito che sarebbero potute salire a bordo della nostra Safira in caso di intervento.  Cosa fare? La paura di mettere a repentaglio la nostra vita così come quella dell’equipaggio mi toglieva il fiato. Autorizziamo il primo trasbordo mentre ci prendiamo il tempo di decidere che fare. Poi accade un miracolo. Una piccola macchia oscura con un enorme rettangolo arancione fluorescente tutt’attorno salta su dal cancelletto dove avvengono i trasbordi ed immediatamente dopo di lui altri tre bambini che vengono infagottati dai medici e paramedici di bordo nelle metalline termiche e fatti accomodare proprio in pozzetto a meno di un metro da me. E’ proprio in quel momento che i numeri si sono trasformati. Persone, essere umani, storie come la mia o, più probabilmente, totalmente diverse, ma non chilogrammi, non carico dunque. Tutti concetti che ho sempre sostenuto intellettualmente ma dalla prospettiva rassicurante del mio divano, assumevano per la prima volta un significato completamente diverso. Io e loro eravamo la stessa cosa, eravamo da quel momento in poi letteralmente sulla stessa barca. Come se non bastasse, questo cambio radicale di percezione, questa trasformazione alchemica veniva definitivamente sugellata da una risata incontenibile dei 4 bambini al mio fianco, piccoli sciamani testimoni di una trasformazione.

Non possiamo lasciarli li, ma la fisica non è dalla nostra parte. Quasi 90 persone a bordo (compreso il nostro equipaggio) su una barca a vela di 16 metri e 40, sono davvero troppe per una navigazione sicura. Imbarcare qualcuno e lasciarne altri sul gommone alla deriva equivaleva a scegliere chi salvare e chi no. Ma ormai la mutazione dei numeri in uomini, donne e bambini era avvenuta ed a dimostrarlo ancora una volta c’era Agata che, senza dire nulla, si presenta al mio fianco con un giubbotto di salvataggio da farmi indossare così come lei stessa aveva appena fatto e come aveva invitato a fare al resto dell’equipaggio che ne era sprovvisto. “Da qui passeranno tutti o non passerà nessuno” diceva la canzone.  Apriamo tutti i rubinetti dell’acqua e una volta esauriti i serbatoi chiudiamo tutte le prese a mare e gli scarichi.  Carichiamo tutti a bordo quindi e contemporaneamente, dopo aver ripetutamente e senza successo tentato di contattare le autorità maltesi responsabili, ci rimettiamo in comunicazione con l’IT MRCC di Roma (la massima autorità marittima che dispone le azioni della capitaneria italiana) aggiornandoli su tutto ciò che stava avvenendo ma soprattutto chiedendo un “intervento di supporto, assistenza ed eventuale trasferimento dei naufraghi a bordo delle (loro) unità navali”. La risposta è stata più o meno questa: mi spiace, avete effettuato il soccorso in SAR maltese ed è con Malta che vi dovete coordinare, “tuttavia” Lampedusa è stata assegnata come luogo di sbarco sicuro per le persone da voi salvate. A poco o niente è valso ribadire all’ufficiale di turno che le autorità maltesi non ci rispondevano da ore e che addirittura quella volta che Roma ha fatto da ponte telefonico chiamando Malta e passandoci la chiamata, hanno messo giù. E poi, della richiesta di assistenza? Nessuna traccia né nelle mail ufficiali né nei successivi contatti telefonici. Sento la rabbia montare, ma al tempo stesso realizzo che se non interverrà nessuno in nostro aiuto verremo colti da vento forte e mare grosso nel giro di 10 o 12 ore. Ci troviamo a quasi 40 miglia da Lampedusa, bisogna provare a muoversi. Do giri al motore e rimango in osservazione dell’andamento della barca. Sento il timone sotto le mie mani come qualcosa di pericoloso, come se accarezzassi la testa di un leone che dorme, qualcosa da toccare il meno possibile. Dirigo la prua verso nord e chiedo a tutti i Santi, a cui non credo, di venirmi in aiuto. Il pozzetto, così come ogni anfratto del ponte e della tuga è colmo all’inverosimile di uomini  bagnati  ed infreddoliti. I bambini e le donne, compresa una signora svenuta per le esalazioni del carburante, vengono accolte in dinette dove, dopo le prime reazioni di angoscia e lacrime, cadono in un sonno profondissimo. Un odore acre di benzina, urina e paura pervade l’aria nonostante il vento si stia facendo più intenso. Decidiamo di non legare il gommone al traino e chiediamo quindi a 3 membri dell’equipaggio di sacrificarsi e proseguire a bordo di Abba1 scortandoci fino a Lampedusa. Il mare da calmo si fa più ripido e schiumoso ma finalmente, solo grazie alle nostre preghiere, è sorto il sole inondando di nuova luce lo sguardo esausto di 89 persone a bordo di Safira2.

Leonardo Stabile

 

P.S. Ci siamo chiesti il perché della discordanza tra le informazioni arrivate (barca in legno con 17 persone a bordo etc) e quello che poi in effetti abbiamo trovato in mare. Una spiegazione plausibile ma non esaustiva è nella somiglianza tra le parole 17 e 70 in inglese (seventeen e saventy)  ma è solo un’ipotesi che non ha cancellato del tutto il sospetto che a poche miglia ci sia stata un’altra imbarcazione in distress.

P.S.2 La mattina prima del salvataggio abbiamo intercettato un’imbarcazione di legno bianca e rossa alla deriva, senza motore e senza nessuno a bordo!

 

Comments:

  • Gas

    6 Dicembre 2024

    Bravi ragazzi 🤗🤗

    Reply

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